Accesso all' indirizzo di posta elettronica aziendale GIP TRIBUNALE DI MILANO 10 MAGGIO 2002 Tribunale ordinario di Milano Ufficio del Giudice per le Indagini Preliminari Dott. Andrea Pellegrino Ordinanza di archiviazione a seguito di opposizione non accolta 10.5.2002 Artt. 409 co.1, 410 c.p.p. Nel proc. penale sopra epigrafato a carico di C.G. e F.F. entrambi difesi di fiducia dall'avv. A. M. Per il reato di cui agli artt. 51 n. 11, 616, 110 c.p. (in Milano il 31.7.01)Pers. Off.: A. A., dom. ex lege presso il dif. Avv. M. F. Il Giudice per le indagini preliminari, dott. Andrea Pellegrino Visti gli atti del procedimento,verificata la ritualita' delle notifiche e degli avvisi, sentite le parti intervenute all'udienza camerale del 29.4.02, a scioglimento della riserva ivi assunta OSSERVA Con atto presentato presso gli uffici della Procura della Repubblica di Milano in data 7.11.01, l'avv. M. F., nella sua qualita' di difensore procuratore speciale di A. A., sporgeva denuncia querela nei confronti dei sigg.ri C. G. e R. F. (la prima, responsabile del reparto di project management della ditta (...); il secondo, legale rappresentante della predetta societa') per il reato p. e p. dagli artt. 110 [1], 616 [2],61 n. 11 c.p. [3] nonche' per tutti gli altri reati eventualmente ravvisabili dall'Autorita' Giudiziaria. In fatto l'esponente deduceva che la A. in data 13.8.01 aveva ricevuto da parte del proprio datore di lavoro (...) presso la quale aveva svolto in qualita' di impiegata mansioni di consultant/account sin dalla data di assunzione avvenuta l'1.9.00) raccomandata datata 6.8.01 del seguente letterale tenore: "il giorno 31 luglio u.s., la sua responsabile (C. G. n.d.r.), durante le normali e periodiche operazioni di lettura della casella aziendale di posta elettronica (cui fanno riferimento i clienti di (...), per i progetti a Lei assegnati) al fine di verificare eventuali messaggi ricevuti durante il Suo periodo di assenza per ferie, si imbatteva in comunicazioni inerenti soluzioni internet inequivocabilmente relative a progetti estranei a quelli attualmente gestiti da (.).". Con successiva missiva del 29.8.01 la A. veniva licenziata dalla ditta (.) per presunta violazione dei doveri inerenti al rapporto di lavoro (licenziamento che la lavoratrice impugnava con rivendicazioni economiche). Nella denuncia-querela l'esponente deduceva che la condotta della C. e del R. presentava aspetti di rilevanza penale (art. 616 c.p.) avendo i medesimi fatto accesso alla corrispondenza della lavoratrice; corrispondenza - quella contenuta all'interno della sua casella di posta elettronica, al pari di quella effettuata per via epistolare, telegrafica, telefonica ovvero effettuata con ogni altra forma di comunicazione a distanza - la cui segretezza e' garantita costituzionalmente. Ne' si poteva ritenere la ricorrenza di una causa di giustificazione (esercizio di un diritto o adempimento di un dovere) dal momento che in nessun caso - con l'ovvia eccezione, nella specie non ricorrente, dell'ipotesi in cui si abbia motivo di ritenere che in essa siano contenuti elementi comprovanti fatti illeciti che interessino in modo diretto l'agente - e' consentito al datore di lavoro di controllare il contenuto dei messaggi di posta elettronica. Ad ogni buon conto occorreva evidenziare che:i messaggi inviati dai clienti erano, senza dubbio identificabili tra quelli contenuti nella casella postale (e cio' si deduceva dal fatto che la stessa societa' aveva assegnato tali clienti alla A. e le relative comunicazioni erano state oggetto di altri e precedenti controlli da parte della responsabile sig.ra C.);il controllo delle missive dei clienti era superfluo considerato che gli stessi erano in ferie;il controllo dei messaggi a carattere privato fu compiuto quanto la A. era in ferie evidentemente a sua insaputa e con l'avallo dei responsabili della societa';non vi era alcuna fondata ragione, al momento del controllo della corrispondenza destinata alla A., da parte della societa', per ritenere che in essa vi fossero contenuti elementi comprovanti fatti illeciti interessanti in modo diretto la societa' stessa. In data 21.1.02 il P.M. avanzava richiesta di archiviazione del procedimento con la seguente motivazione: "le caselle di posta elettronica recanti quali estensioni nell'indirizzo e-mail @(...).it, seppur contraddistinte da diversi "username" d identificazione e password di accesso, sono da ritenersi equiparate ai normali strumenti di lavoro della societa' e quindi soltanto in uso ai singoli dipendenti per lo svolgimento dell'attivita' aziendale agli stessi demandata; considerando quindi che la titolarita' di detti spazi di posta elettronica debba ritenersi riconducibile esclusivamente alla societa'. p.q.m. .omissis". L'opposizione risulta inaccoglibile mentre, di contro, l'archiviazione deve essere disposta ritenuta l'infondatezza della notizia di reato. Dopo aver sgombrato il campo da impropri riferimenti alla normativa contenuta nella legge n. 675/96 relativa al ben diverso (ed assolutamente inconferente) problema della tutela del trattamento dai dati personali, una breve ma doverosa premessa s'impone. La fattispecie dedotta avanti a questo giudice presenta aspetti di novita' nell'ambito di una disciplina che solo da tempi relativamente assai recenti ha iniziato a fare la propria comparsa nelle aule giudiziarie. Non puo' negarsi come la nascita e la diffusione di una nuova tecnologia precedono sempre e significativamente l'affermarsi di una cultura comune e standardizzata nell'utilizzo ad ogni livello del nuovo strumento. La preoccupazione della prima fase e' solo quella di acquisire la padronanza, a volte anche solo parziale, dell'uso tecnico del nuovo mezzo o strumento senza alcun interesse (o attenzione) nel valutare le modalita' di integrazione semiotica o antropomorfa dalla nuova tecnologia (cfr. il recente esempio della telefonia mobile). A questa regola non e' certamente sfuggita la "posta elettronica" di internet. In attesa di una codificazione dei comportamenti ai fini dell'omologazione e dell'accettazione di un uso standardizzato dello strumento, molte sono le problematiche che si sono affacciate con la nascita della "buca delle lettere elettronica", tra queste dividendole per aree tematiche e con specifico riferimento all'utilizzo di tale strumento da parte del lavoratore si possono elencare le seguenti: a) utilizzo anche per fine privato dell'indirizzo di posta elettronica da parte del lavoratore con eventuale esposizione dello stesso sulla carta da visita intestata a proprio nome; b) possesso di un indirizzo "generalista" per cui la posta ivi indirizzata puo' avere come destinatario un qualunque altro dipendente con conseguente incertezza sulla "consegna"; c) mancata individuazione del mittente (in possesso di un indirizzo in codice o con sigla) che non provvede a sottoscrivere il messaggio ovvero che non si preoccupa di farsi riconoscere rendendosi di fatto anonimo. Limitando sostanzialmente la nostra analisi alla prima problematica, va detto innanzitutto come non possa mettersi in dubbio il fatto che l'indirizzo di posta elettronica affidato in uso al lavoratore, di solito accompagnato da un qualche identificativo piu' o meno esplicito, abbia carattere personale, nel senso cioe' che lo stesso viene attribuito al singolo lavoratore per lo svolgimento delle proprie mansioni. Tuttavia, "personalita'" dell'indirizzo non significa necessariamente "privatezza" del medesimo dal momento che, salve le ipotesi in cui la qualifica del lavoratore lo consenta o addirittura lo imponga in considerazione dell'impossibilita' o del divieto di compiere qualsiasi tipo di controllo/intromissioni da parte di altri lavoratori che rivestano funzioni o qualifiche sovraordinate (fattispecie che potrebbe effettivamente indurre a qualche dubbio), l'indirizzo aziendale, proprio perche' tale, puo' sempre essere nella disponibilita' di accesso e lettura da parte di persone diverse dall'utilizzatore consuetudinario (ma sempre appartenenti all'azienda) a prescindere dalla identita' o diversita' di qualifica o funzione: ipotesi, frequentissima, e' quella del lavoratore che "sostituisce" il collega per qualunque causa (ferie, malattia, gravidanza) e che va ad operare, per consentire la continuita' aziendale, sul personal-computer di quest'ultimo anche per periodi di tempo non limitati. Cosi' come non puo' configurarsi un diritto del lavoratore ad accedere in via esclusiva al computer aziendale, parimenti e' inconfigurabile in astratto, salve eccezioni di cui sopra, un diritto all'utilizzo esclusivo di una casella di posta elettronica aziendale. Pertanto il lavoratore che utilizza - per qualunque fine - la casella di posta elettronica, aziendale, si espone al "rischio" che anche altri lavoratori della medesima azienda che, unica, deve considerarsi titolare dell'indirizzo - possano lecitamente entrare nella sua casella (ossia in suo uso sebbene non esclusivo) e leggere i messaggi (in entrata e in uscita) ivi contenuti, previa consentita acquisizione della relativa password la cui finalita' non e' certo quella di "proteggere" la segretezza dei dati personali contenuti negli strumenti a disposizione del singolo lavoratore bensi' solo quella di impedire che ai predetti strumenti possano accedere persone estranee alla societa';E che detto rischio, per essere "operativo", non debba essere preventivamente ed espressamente ricordato al lavoratore e' una evenienza che puo' ritenersi conseguenziale alle doverose ed imprescindibili conoscenze informatiche del lavoratore che, proprio perche' utilizzatore di detto strumento, non puo' ignorare questa evidente e palese implicazione. Ne' si puo' ritenere che l'assimilazione della posta elettronica alla posta tradizionale, con consequenziale affermazione "generalizzata" del principio di segretezza, si verifichi nel momento in cui il lavoratore utilizzi lo strumento per fini privati (ossia extralavorativi), atteso che giammai un uso illecito (o, al massimo, semplicemente tollerato ma non certo favorito) di uno strumento di lavoro puo' far attribuire a chi, questo illecito commette, diritti di sorta. A questo punto, peraltro, il problema muta prospettiva perche' non riguarda piu' l'individuazione ed il diritto di chi "entra" nel computer (e nell'indirizzo di posta elettronica) altrui avendo possibilita' di leggere i messaggi di posta elettronica non specificamente a lui destinati, bensi' diventa quello di "tutelare" il diritto di chi invia il messaggio (a qualunque contenuto: ossia a contenuto privato ovvero lavorativo) credendo che il destinatario dello stesso sia e possa essere esclusivamente una determinata persona (o una cerchia determinata di persone). E' evidente che questa situazione puo' trovare tutela rendendo chiaro al proprio interlocutore che l'indirizzo di posta elettronica e' esclusivamente aziendale (e, quindi, al di la' dell'uso di intestazioni apparentemente personali del lavoratore-principale utilizzatore, lo stesso non e' un indirizzo privato secondo quanto precedentemente detto); cosa che puo' avvenire o usando un inequivoco identificativo aziendale (indirizzato ad un destinatario virtuale) in aggiunta ad altro identificativo personale-nominativo ovvero provvedendo a segnalare adeguatamente al proprio interlocutore (destinatario reale) la circostanza del carattere "non privato" dell'indirizzo. Ne' puo' ritenersi conferente ogni ulteriore argomentazione che, facendo apoditticamente leva sul carattere di assoluta assimilazione della posta elettronica alla posta tradizionale, cerchi di superare le strutturali diversita' dei due strumenti comunicativi (si pensi, in via esemplificativa, al carattere di "istantaneita'" della comunicazione informatica - operante come un normale terminale telefonico - pur in presenza di un prelievo necessariamente legato all'accensione del personal e, quindi, sostanzialmente coincidente con la presenza stanziale del lavoratore nell'ufficio ove e' presente il desk-top del titolare dell'indirizzo) per giungere a conclusioni differenti da quelle ritenute da questo giudice.Tanto meno puo' ritenersi che leggendo la posta elettronica contenuta sul personal del lavoratore si possa verificare un non consentito controllo sulle attivita' di quest'ultimo atteso che l'uso dell'e-mail costituisce un semplice strumento aziendale a disposizione dell'utente-lavoratore al solo fine di consentire al medesimo di svolgere la propria funzione aziendale (non si possono dividere i messaggi di posta elettronica: quelli "privati" da un lato e quelli "pubblici" dall'altro) e che, come tutti gli altri strumenti di lavoro forniti dal datore di lavoro, rimane nella completa e totale disponibilita' del medesimo senza alcuna limitazione (di qui l'inconferenza dell'assunto in ordine all'asserito preteso divieto assoluto del datore di lavoro di "entrare" nelle cartelle "private" del lavoratore ed individuabili come tali, che verosimilmente contengano messaggi privati indirizzati o inviati al lavoratore e che solo ragioni di discrezione ed educazione imporrebbero al datore di lavoro/lavoratore non destinatario di astenersi da ogni forma di curiosita'.).Parimenti irrilevante appare l'ulteriore rilievo che anche la posta tradizionale che presenti caratteri inequivoci di "privatezza", non cessi di assumere detto carattere se fatta recapitare al suo destinatario sul posto di lavoro anziche' al proprio domicilio dal momento che in questo caso l'inconfondibilita' del carattere di privatezza-esclusivita' (busta chiusa con nominativo del solo destinatario) della corrispondenza non consente di operare un simile confronto! Venendo alla fattispecie dedotta in giudizio, si evidenzia come le indagini esperite (assunzione di sommarie informazioni testimoniali rese da P. F., direttore tecnico nonche' responsabile del settore informatico per la filiale italiana della (...) ) abbiano consentito di acclarare che: - all'interno della (...) il lavoratore e' depositario di un username e di una password (conosciuti dal solo responsabile tecnico) che vengono utilizzati per entrare nel sistema informatico: identificativi che il singolo lavoratore puo' in qualsiasi momento modificare; - l'accesso a tutti gli strumenti aziendali (e-mail compresa) e' funzionale all'occupazione del dipendente; - la funzione svolta dagli identificativi non e' quella di proteggere i dati personali contenuti negli strumenti a disposizione del singolo lavoratore bensi' quella di proteggere i predetti strumenti dall'accesso di persone estranee alla societa'; - e' prassi comune fra i dipendenti dell'azienda fornire volontariamente i propri dati d'accesso ad altri lavoratori con funzioni societarie equivalenti onde permettere la continuazione delle relative funzioni in propria assenza; - nel normale uso dello strumento viene anche tollerato un uso extra-lavorativo della e-mail senza tuttavia che si verifichi un mutamento della destinazione dello strumento, che e' quello esclusivo della comunicazione con colleghi e clienti: in ogni caso non viene consentito, anzi e' assolutamente vietato, l'utilizzo dello spazio di posta elettronica per motivi personali; - l'indirizzo di posta elettronica dei dipendenti della societa' si compone, da sinistra a destra, del nome e del cognome del lavoratore seguiti dal simbolo @ e dal nome della societa' (...).it. Tutte queste circostanze di fatto attestanti le consuetudini lavorative all'interno dell'azienda e le condotte dei dipendenti sono conformi alle premesse sopra esposte e consentono di escludere la configurabilita' a carico degli indagati di fattispecie delittuose. Fermo quanto precede, si puo' concludere ritenendo che: - la A., cosi' come gli altri lavoratori con mansioni e qualifica pari o assimilabili, era tenuta, secondo una consuetudine che non abbiamo difficolta' a ritenere universale, a segnalare (ovvero a non mantenere segreta nel caso di successiva modificazione) la propria password per consentire a qualunque altro suo collega di poterla adeguatamente sostituire durante la sua assenza dal lavoro; - la A., nell'utilizzazione della casella di posta elettronica della societa', non poteva non sapere che alla medesima, indipendentemente dalla sua presenza in societa', vi poteva avere lecito accesso qualunque altro suo collega (e, ovviamente, il datore di lavoro) al fine del disbrigo delle incombenze lavorative connesse alle mansioni (invio e ricezione di comunicazioni di lavoro con colleghi e clienti). Fermo quanto precede, da ultimo va detto che quand'anche - per assurdo, atteso quanto sin qui esposto - si volesse ritenere che con la loro condotta la C. e il R. nelle rispettive diverse qualita', entrando nella casella di posta elettronica in uso alla lavoratrice abbiano commesso nei confronti della stessa un'illecita intromissione in una sfera personale privata, nondimeno la configurabilita' del reato di cui all'art. 616 c.p. verrebbe ugualmente esclusa sotto il profilo soggettivo attesa la totale mancanza di dolo nella loro condotta; l'accesso alla casella di posta elettronica dell'A. e' avvenuta per motivi assolutamente connessi allo svolgimento dell'attivita' aziendale, oltre che in assenza della lavoratrice: in una situazione, cioe', nella quale non vi era altro modo per accedere a quelle necessarie informazioni e comunicazioni che, diversamente, se non ricevute ovvero recepite con ritardo, avrebbero potuto arrecare un evidente danno (economico e non solo) per la societa'. Da qui il rigetto dell'opposizione e l'archiviazione del procedimento. Visti gli artt. 408 e segg. C.p.p. P.Q.M. rigetta l'opposizione proposta nell'interesse della persona offesa A. A. in data 14.2.02; dispone l'archiviazione del procedimento e ordina la restituzione degli atti al Pubblico Ministero. Manda la Cancelleria agli adempimenti di competenza.Milano, li' 10.5.2002 Il Giudice per le Indagini Preliminari Dott. A. Pellegrino